Riprende oggi dopo una lunga pausa la nostra rubrica appunti sui quotidiani curata da Vincenzo Sciabica.
Nel lungo articolo che segue parleremo di un esperimento socio-politico che sembra spopolare fra i giovani della facebook-generation e anticipato già qualche anno addietro da Yochai Benkler nel suo libro la richezza della rete.
Il nuovo socialismo non è oppressivo né di “classe” né statalista, ma liberale e globale: la società collettivista arriva dalla Rete.
Bill Gates, cofondatore di Microsoft, una volta ha deriso i difensori dell’open source definendoli con il peggior epiteto un capitalista possa immaginare. Questi personaggi, ha detto, «sono una sottospecie di comunisti dell’era moderna, una forza malevola dedicata a distruggere il sogno americano basato sull’incentivo del guadagno e sulla possibilità del monopolio». Gates ha torto: il popolo dell’open source è certo più liberale dei comunisti. Ma c’è del vero nella sua dichiarazione. L’urgenza frenetica e globale di connettere tutto e tutti, in ogni momento, sta silenziosamente dando vita a una nuova forma di socialismo.
Gli aspetti “comunisti” della cultura digitale sono profondi e diffusi. Wikipedia è solo uno degli esempi più lampanti del collettivismo emergente, e non solo Wikipedia, ma la “wikità” in senso ampio. Ward Cunningham, creatore della prima pagina web collaborativa nel 1994, conta oggi quasi 150 motori wiki, ciascuno dei quali ospita migliaia di siti. Wetpaint, lanciato solo 4 anni fa, è il risultato di più di un milione di sforzi comuni. L’adozione diffusa della licenza di copyright di tipo Creative Commons e la crescita e diffusione del file-sharing sono ulteriori passi in avanti in questa direzione. Siti frutto di collaborazione, come Digg, StumbleUpon, The Hype Machine e Twine spuntano come funghi, accelerando e accentuando questo processo. Quasi ogni giorno nasce un nuovo progetto che imbriglia gli sforzi di molti. Questi sviluppi suggeriscono il movimento verso una forma di socialismo forgiata su un mondo “connesso”.
Non stiamo parlando del socialismo dei vostri nonni, che ha ben pochi punti in comune con questo nuovo socialismo: non è una lotta di classe; non è antiamericano, anzi, potrebbe essere considerato figlio dell’innovazione americana. Mentre il socialismo alla vecchia maniera era un braccio dello Stato, il socialismo digitale non ha “stato”: opera nel regno della cultura e dell’economia, invece che in quello del governo – per adesso.
DAL POLITBURO ALL’AUTONOMIA
Il tipo di comunismo che Gates sperava di associare ai creatori di Linux è il figlio di un’epoca di frontiere e muri, di comunicazione centralizzata e del culmine del processo industriale. I suoi limiti hanno dato vita a un tipo di collettivismo che ha rimpiazzato il vivace caos del mercato libero con scientifici piani quinquennali controllati da un onnipotente Politburo. Questo sistema politico ha fallito, per usare un eufemismo. Invece, a differenza del socialismo dalla bandiera rossa, quello nuovo opera attraverso Internet su un sistema di economia globale senza frontiere, in cui ogni parte è strettamente connessa alle altre. È concepito per valorizzare l’autonomia individuale e abbattere la centralizzazione. Anzi, è l’apoteosi della decentralizzazione. Invece di raccogliere il frutto di fattorie collettivizzate, lo cogliamo nei diversi mondi che fanno parte di questo universo. Al posto di fabbriche statali, abbiamo sui nostri desktop link a cooperative virtuali. Invece di condividere punte di trapano, picconi e pale, condividiamo applicazioni, script e interfacce software. Al posto di un anonimo Politburo, abbiamo la produzione anonima, la produzione tra pari e per pari (p2p). Invece del razionamento e dei sussidi statali, abbiamo un’abbondanza di beni liberamente acquistabili da tutti.
SENZA PAGA
La parola socialismo farà storcere il naso a molti. Porta con sé un tremendo bagaglio culturale, come anche termini ad essa collegati quali comune, comunitario, collettivo. Uso questa parola perché tecnicamente è la migliore per indicare un complesso di tecnologie che, per funzionare, fanno affidamento sulle interazioni sociali. L’azione collettiva è il risultato dell’interazione tra web e audience globale. Certo, si rischia di peccare di retorica raccogliendo così tanti concetti sotto un unico termine, per altro così carico di significati; ma non ci sono a disposizioni parole migliori, perciò non abbiamo altra scelta che redimere questa. Quando le masse che sono in possesso dei mezzi di produzione lavorano verso il raggiungimento di uno scopo comune e condividono i prodotti del proprio lavoro, quando lavorano senza paga e godono dei risultati senza pagare, non è irragionevole parlare di socialismo.
NO ALL’IDEOLOGIA
Alla fine degli anni ’90 John Barlow, attivista, provocatore e hippy invecchiato, iniziò quasi per scherzo a chiamare questa tendenza dot-communism. Barlow l’ha definito una “forza lavoro composta interamente da liberi individui”, un’economia decentralizzata di dono o baratto dove non esiste la proprietà e dove l’architettura tecnologica definisce lo spazio politico. Aveva ragione; ma c’è anche un senso in cui socialismo è una parola sbagliata per quello che sta succedendo: non è un’ideologia. Non richiede alcun rigido credo. Piuttosto, è uno spettro di comportamenti, tecniche e strumenti che promuove collaborazione, condivisione, aggregazione, coordinazione, e permette la nascita di nuove forme di cooperazione sociale che prima non sarebbero state possibili. È uno spazio di innovazione estremamente fertile.
Nel suo libro Here Comes Everybody (2008), il teorico dei media Clay Shirky suggerisce uno schema per capirci qualcosa in queste nuove convenzioni sociali. Gruppi di persone iniziano semplicemente a condividere e poi progrediscono verso la cooperazione, la collaborazione, per arrivare, alla fine, al collettivismo. A ogni passo, la coordinazione aumenta. Un monitoraggio del panorama online rivela ampiamente l’evidenza di questo fenomeno.
1) CONDIVISIONE
Le masse di navigatori hanno un’incredibile tendenza alla condivisione. Il numero di foto personali postate su Facebook e MySpace è astronomico: dire che la stragrande maggioranza delle foto scattate con una macchina fotografica digitale finisce su Internet è dire poco. Possiamo aggiornare il nostro status, mostrare a tutti il luogo in cui ci troviamo in ogni momento, condividere i nostri pensieri non appena si formano in testa. Considerate i miliardi di video postati ogni mese su YouTube – 6 miliardi solo negli Usa, i milioni di siti dedicati alle fan-fiction,Yelp, Loopt, Delicious e via dicendo. La lista degli stratagemmi che la comunità web ha organizzato per condividere è quasi senza fine.
Condividere è la forma più blanda di socialismo, ma è la base per raggiungere livelli più alti di impegno comune.
2) COOPERAZIONE
Quando gli individui lavorano insieme verso un obbiettivo su larga scala, il risultato va a beneficio dell’intero gruppo. Non solo gli utenti condividono più di 3 miliardi di foto su Flickr, ma le taggano a seconda delle categorie, le etichettano, inseriscono parole chiave per renderne più facile l’individuazione. Altri le raccolgono in album. La popolarità della licenza Creative Common significa che “la mia foto è la tua foto”: se non vogliamo già usare la parola comunista, non si può negare che questo sia almeno un modo per mettere in comune le proprie risorse. In questo modo non è necessario che io scatti una nuova foto, per esempio, della Tour Eiffel: di sicuro tra quelle della comunità ce ne sarà già una, migliore di quelle che scatterei io…
Migliaia di siti di aggregazione impiegano la stessa dinamica sociale ottenendo un triplice risultato. Primo, la tecnologia aiuta gli utenti direttamente, permettendo loro di taggare, mettere segnalibri, votare e archiviare per il proprio uso personale. Secondo, qualunque utente può beneficiare del lavoro di tutti gli altri: tag, segnalibri eccetera sono pubblici. E questo, in cambio, spesso dà luogo a un valore aggiunto che si realizza solamente in un gruppo che si comporta come un’unità. Per esempio, scatti della stessa scena fotografata da diversi punti di vista possono essere assemblati in una stupefacente immagine 3D – provate con Photosynth In qualche modo questo eccede la promessa socialista: “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Il risultato collettivo supera sia il lavoro sia le necessità individuali.
Il potenziale è straordinario. Siti come Digg e Reddit, in cui gli utenti possono votare i link che preferiscono, sono in grado di vivacizzare la conversazione pubblica tanto quanto i telegiornali o i quotidiani. Le persone che contribuiscono più seriamente a questi siti ci mettono molta più energia e impegno di quanto ne potranno mai ricevere in cambio, ma continuano a farlo, in parte, per il “potere culturale” che questi strumenti esercitano. L’influenza di un utente si estende molto al di là di un voto solitario, e l’influenza collettiva della comunità è sproporzionata rispetto al numero dei membri. Questo è il punto delle istituzioni sociali – il tutto supera la somma delle parti. Il socialismo tradizionale mirava a incanalare questa dinamica attraverso lo Stato. Ora, allontanata dal governo ma ben ancorata alla rete digitale globale, questa forza elusiva opera su scala più larga di quanto abbia mai fatto.
3) COLLABORAZIONE
Una collaborazione organizzata produce risultati anche migliori di una semplice cooperazione casuale. Considerate semplicemente uno qualsiasi delle centinaia di progetti per software open source, come per esempio il server web Apache. È un esempio di come gli sforzi collettivi di migliaia o decine di migliaia di membri, finalmente armonizzati tra loro, producano strumenti di ottima qualità alla portata di tutti. Al contrario della cooperazione casuale, la collaborazione a progetti grandi e complessi tende a portare ai partecipanti solo benefici indiretti, dal momento che ciascun membro contribuisce solo a una piccola parte del prodotto finale. Un entusiasta può passare mesi a scrivere codici per una funzione secondaria quando il programma, nella sua completezza, potrebbe non essere pronto ancora per anni. In effetti, il rapporto lavoro-ricompensa è abbastanza sproporzionato, considerato da una prospettiva di libero mercato. I lavoratori producono un’immensa quantità di lavoro di alta qualità senza essere pagati – questo sforzo collaborativo non ha alcun senso per il capitalismo.
Per aggiungere carne al fuoco di queste bizzarrie economiche: siamo stati abituati a godere gratis del prodotto di questa collaborazione collettiva. Invece che soldi, la comunità di pari produttori guadagna credito, reputazione, divertimento, soddisfazione ed esperienza. Non solo il prodotto è gratis, ma può anche essere copiato gratis e usato come punto di partenza per nuovi prodotti. Sono state pensate nuove garanzie a protezione di questo meccanismo, come appunto le licenze Creative Common e Gnu.
Ovviamente, non c’è nulla di intrinsecamente socialista nella collaborazione di per sé. Ma gli strumenti della collaborazione online supportano uno stile comunista di produzione che sfugge agli investitori capitalisti e mantiene la proprietà nelle mani dei lavoratori e, per esteso, in quelle dei consumatori.
4) COLLETTIVISMO
Mentre la collaborazione può produrre un’enciclopedia, nessuno è ritenuto responsabile se la comunità non riesce a raggiungere il consenso, e la mancanza di accordo non danneggia l’impresa nel suo complesso. Lo scopo di un collettivo, invece, è di progettare un sistema in cui i pari, autonomamente, si assumano la responsabilità dei processi critici e in cui le decisioni difficili, come stabilire le priorità, siano prese da tutti i partecipanti. Storicamente, centinaia di gruppi collettivisti su piccola scala hanno provato ad applicare questo sistema. I risultati non sono stati incoraggianti, anche senza considerare Jim Jones e la famiglia Manson.
Oligarchie. In realtà un esame profondo del nucleo di, per esempio, Wikipedia, Linux o Open Office mostra che questi sforzi sono più lontani dall’ideale collettivistico di quanto appaia dal di fuori. Mentre milioni di utenti contribuiscono a Wikipedia, un numero molto inferiore (circa 1.500) è responsabile della maggior parte delle modifiche. Lo stesso vale per i programmatori. L’armata dei collaboratori è organizzata e diretta da un piccolo gruppo. Come osservato da Mitch Kapor, autorità tra i fondatori di Mozilla: «Sotto la superficie anarchica del lavoro, c’è una rete di veterani».
Gerarchie. Non è necessariamente una brutta cosa. Alcuni tipi di collettivi traggono benefici dalla gerarchia, altri ne sono danneggiati. Le piattaforme come Internet e Facebook, o la democrazia – intesa a servire da substrato per la produzione e la distribuzione di beni – traggono beneficio dall’essere il meno gerarchici possibile, minimizzando le barriere e cercando di distribuire diritti e responsabilità nel modo più equo possibile. Quando entra in gioco un attore troppo potente, ne soffre l’intero tessuto. D’altra parte, le organizzazioni nate per creare prodotti spesso richiedono una leadership forte e una precisa specializzazione dei compiti: qualcuno che si concentri sui bisogni immediati e qualcuno che si occupi di progettare a lungo termine.
In passato, costruire un’organizzazione che sfruttasse la gerarchia ma massimizzasse i benefici del collettivismo è stato impossibile. Ora, la rete digitale fornisce le infrastrutture necessarie: dà alle organizzazioni produttrici la possibilità di funzionare collettivamente mentre protegge contro una eccessiva presa di potere da parte dell’élite. L’organizzazione dietro MySQL, un database open source, non è certo, romanticamente, priva di ogni gerarchia, ma è certo più collettivista di quella alle spalle di Oracle. Lo stesso si può dire di Wikipedia in confronto all’Enciclopedia Britannica. Il nocciolo elitario che possiamo trovare al cuore dei collettivi online è in realtà una prova e una garanzia del fatto che un socialismo senza Stato è possibile su larga scala.
Alla maggior parte degli occidentali, me compreso, è stato insegnato che, al crescere del potere degli individui, diminuisce quello dello Stato, e viceversa. In realtà, la maggior parte delle strategie politiche sono basate sulla socializzazione di alcune risorse e sulla privatizzazione di altre. La maggior parte delle economie a libero mercato hanno un’educazione statale, mentre persino le comunità estremamente socializzate permettono una qualche forma di proprietà privata.
Individui. Piuttosto che guardare al socialismo tecnologico come un lato dello storico out-out tra l’individualismo del libero mercato e l’autorità centralizzata, dovremmo considerarlo come un processo culturale che eleva l’individuo e il gruppo allo stesso tempo. Lo scopo, non certo dichiarato, ma intuitivamente compreso, della tecnologia comunitaria è di massimizzare sia l’autonomia dell’individuo sia il potere del lavoro congiunto di tutti i lavoratori. Per questo, il socialismo digitale può essere visto come una terza via che rende irrilevanti i vecchi dibattiti tra sostenitori del socialismo e sostenitori del libero mercato.
Il concetto di terza via è introdotto da Yochai Benkler, autore de La Ricchezza della Rete (2007), probabilmente uno dei maggiori pensatori che abbia considerato il network da un punto di vista politico. «Considero l’emergere di produzione sociale tra pari come un’alternativa sia all’economia di Stato sia all’economia di mercato basata sulla proprietà privata», dice, aggiungendo che queste attività «favoriscono la creatività, la produttività e la libertà.» Il nuovo “sistema operativo” non è né il comunismo classico centralizzato e pianificatore privo della proprietà privata, né il caos del libero mercato. Invece, è l’emergere di uno spazio disegnato per la decentralizzazione e la coordinazione pubblica, che può risolvere problemi e creare cose nuove che né il socialismo puro né il capitalismo puro si possono minimamente sognare.
Sistemi ibridi che tendono a mischiare meccanismi di mercato e non, non sono una novità. Per decenni, i ricercatori hanno studiato i metodi di produzione socializzati e decentralizzati delle cooperative industriali basche e dell’Italia del nord, in cui gli impiegati sono anche i proprietari, indipendenti dal controllo statale. Ma solo con l’arrivo della collaborazione low cost, immediata e ubiqua è stato possibile trasferire i principi di questo tipo di produzione in vari settori, dalla progettazione di software alla recensione di libri.
Contagio. Il sogno è quello di sviluppare questa terza via oltre gli esperimenti locali. Fino a dove? Ohloh, un’azienda che studia l’industria open source, stima che ci siano circa 250 mila persone che lavorano a 275 mila progetti. Un numero sorprendente: quasi la forza lavoro di General Motors. È un’incredibile quantità di gente che lavora gratis, anche se non full time. Immaginate se tutti i lavoratori di General Motors continuassero a produrre automobili senza essere pagati!
Finora, gli sforzi maggiori sono concentrati sui progetti open source, e i più grandi tra di essi, come Apache, impiegano molte centinaia di collaboratori (http://httpd.apache.org/contributors/) – tanti quanti gli abitanti di un piccolo Paese di provincia. Uno studio stima che Fedora Linux 9 abbia richiesto una quantità di lavoro pari a quella che 60 mila persone producono in un anno. È la prova che le dinamiche di condivisione possono governare un progetto su larga scala.
Ovviamente il totale dei partecipanti al lavoro collettivo online è molto più grande. YouTube dichiara circa 350 milioni di visitatori al mese. Circa 10 milioni di utenti registrati hanno collaborato a Wikipedia, 160 mila dei quali molto attivamente. Più di 35 milioni di persone hanno postato e taggato oltre 3 miliardi di foto e video su Flickr. Yahoo ospita 7,8 milioni di gruppi su qualsiasi argomento riusciate a immaginare. Google ne ha 3,8 milioni.
Per quanto grandi, questi numeri non fanno una nazione. Magari non si avvicinano neanche alla soglia critica per consolidare una tradizione (ma se YouTube non è una tradizione, che cosa lo è?). Ma chiaramente la quantità di gente che vive a stretto contatto con la tecnologia sociale è significativa. Il numero di persone che lavorano gratis, usano gratis i prodotti di questo lavoro, appartengono a fabbriche collettive, lavorano a progetti che richiedono decisioni collettive o beneficiano in una qualche maniera del socialismo decentrato ammonta a centinaia di milioni. Sono state fatte rivoluzioni da eserciti molto più piccoli.
Uno si aspetterebbe pressioni politiche da un gruppo che, come questo, sta costruendo un’alternativa al capitalismo e al corporativismo. Ma programmatori e hacker che progettano strumenti condivisibili non si considerano dei rivoluzionari in senso politico. Nessun nuovo partito politico è stato fondato (con l’eccezione del Pirate Party svedese, che ha avuto origine su una piattaforma di file-sharing: alle elezioni nazionali del 2006 ha ottenuto lo 0,63% dei voti) [e più del 7% alle europee del 2009, N.d.T.]. In verità, i leader del nuovo socialismo sono estremamente pragmatici. Un’indagine condotta su 2.784 sviluppatori di open source ha cercato di capire le loro motivazioni: la più comune è acquisire nuove abilità. È uno scopo molto pratico. Un accademico l’ha messa giù a modo suo: parafrasando, “la maggiore motivazione che posso avere per lavorare gratis a qualcosa, è migliorare il mio dannato software“. Insomma, la politica non è abbastanza pratica per interessare questa comunità.
Ma il resto di noi potrebbe non restare immune, politicamente parlando, all’ondata crescente di condivisione, cooperazione, collaborazione e collettivismo. Per la prima volta da anni, quella parola che comincia per “s” è mormorata dalla tv e dai telegiornali nazionali, negli Usa, nominata come forza politica. Ovviamente, il trend verso la nazionalizzazione di grossi rami dell’industria, verso la statalizzazione della sanità e la creazione di agenzie di lavoro con i soldi delle tasse non è interamente dovuto al tecno-socialismo. Ma le ultime elezioni americane hanno dimostrato il potere di un movimento decentralizzato che ha alla base la collaborazione digitale. Più godiamo dei suoi benefici, più ci apriamo alla possibilità di istituzioni socialiste nello Stato. Il sistema coercitivo schiaccia-anime della Corea del Nord è finito; il futuro è un ibrido che attinge ispirazione sia da Wikipedia sia dal socialismo moderato svedese.
Ancora sulla condivisione. Quanto vicino a una società non capitalista, open source, fondata sulla produzione tra pari e per pari, ci può portare questo movimento? Ogni volta che questa domanda è stata posta, la risposta è stata: più vicino di quanto pensiamo. Considerate Craigslist: solo un sito di annunci, giusto? Ma grazie al lavoro di ciascuno, supera se stesso per incontrare le necessità di una specifica regione, migliora le proprie funzionalità grazie alla possibilità di inserire foto e aggiornamenti in tempo reale, e improvvisamente diventa patrimonio nazionale. Agendo al di fuori del controllo statale, connettendo i cittadini direttamente ad altri cittadini, questa “piazza del mercato” completamente libera produce il bene sociale, e lo fa con un’efficienza che supera quella di qualsiasi pianificazione statale. Certo, minaccia il business dei giornali, ma allo stesso tempo sottolinea in modo inequivocabile che il modello di condivisione è una valida alternativa al corporativismo, allo statalismo e al capitalismo.
Chi l’avrebbe detto che un povero contadino avrebbe potuto chiedere un prestito di 100 dollari a un perfetto estraneo residente dall’altra parte del globo, e restituirlo? Questo è quello che fa Kiva con il prestito peer to peer. Ogni esperto di sanità pubblica avrebbe dichiarato con sicurezza che lo sharing va bene per le foto, ma nessuno condividerebbe la propria cartella medica. Invece PatientsLikeMe, dove i pazienti stilano classifiche dei trattamenti ricevuti, prova che l’azione collettiva può vincere sui medici e persino sulle preoccupazioni riguardo alla privacy. L’abitudine comune di condividere i proprio pensieri (Twitter), le proprie letture (StumbleUpon), le proprie finanze (Wesabe), qualsiasi cosa (il Web), sta diventando il fondamento di una cultura. Farlo mentre, collaborativamente, si costruiscono enciclopedie, agenzie stampa, archivi video e software, in gruppi che si estendono attraverso i continenti, con persone che non si conoscono e la cui classe sociale è irrilevante – questo avvicina la possibilità di un socialismo politico plausibile.
Una cosa simile è successa con il libero mercato durante il secolo scorso. Ogni giorno, qualcuno si chiedeva: cosa c’è che il mercato non possa fare? Abbiamo preso una lunga lista di problemi che sembravano richiedere una pianificazione razionale o l’intervento paterno di un governo, e abbiamo scoperto che invece la logica del mercato funzionava nella maggior parte dei casi. Molta della prosperità guadagnata negli ultimi decenni è dovuta all’azione delle forze di mercato, libere da costrizioni, sui problemi sociali.
Ora stiamo provando lo stesso trucchetto con la tecnologia abbinata alla collaborazione sociale, applicando il socialismo digitale a una lista crescente di bisogni e desideri, e, occasionalmente, a problemi che il libero mercato non ha potuto risolvere, per vedere se funziona. Finora, i risultati sono stati sbalorditivi. Ogni volta condivisione, cooperazione, collaborazione, gratuità, raggiungibilità e trasparenza hanno dimostrato di essere più utili di quanto noi, capitalisti, ritenevamo possibile. Ogni volta che ci proviamo, scopriamo che il potere di questo nuovo socialismo è più grande di quanto immaginavamo.
Sottovalutiamo il potere dei nostri strumenti di dare nuova forma alla nostra mente. Davvero credevamo di poter costruire insieme nuovi mondi virtuali e abitarli, ogni giorno, senza che questi modificassero le nostre prospettive? La forza del socialismo online è in crescita. Le sue dinamiche si diffondono superando i limiti della rete, e forse persino delle elezioni.
Vincenzo Sciabica