Fanno bella mostra di sé finalmente al Museo di Capodimonte, dall’ 8 aprile di quest’anno, giorno dell’inaugurazione della “Mostra delle armi del cavaliere giostrante”, alcuni esemplari di gran pregio della famosa Armeria del Castello di Canicattì, risalenti, secondo la tradizione, al Conte Ruggero. Sono un elmo, una spada, uno scudo e due armature, che il principe Giuseppe Bonanno Branciforti nel mese di febbraio del 1800 tolse dall’Armeria di Canicattì per farne dono a Ferdinando IV di Borbone, che si trovava a Palermo e aveva organizzato al Palazzo Reale per il carnevale una gran serata di gala, a cui aveva invitato il fiore della nobiltà siciliana. Erano armi che il popolo riteneva fossero appartenute al Conte Ruggero. Il dono venne accompagnato da questi versi di un erudito poeta del tempo, altamente elogiativi per il sovrano di Napoli con l’accostamento al Gran Conte normanno:
Quest’elmo, questo scudo e quest’acciaro
che per Ruggiero un dì temprò Vulcano
i destini dei secoli serbaro
al tuo capo, al tuo braccio, alla tua mano.
Quegli il siculo suol tanto a lui caro
salvò dal Moro, e tu dal Franco insano;
degni dell’armi istesse; egli del Regno
fondatore primiero, e tu sostegno.
Confuse per tanti decenni con la Collezione Farnese, tali armi sono state restituite, proprio in questa primavera del 2011, alla loro storica appartenenza dal dottor Umberto Bile, vicedirettore del Museo di Capodimonte, che ne ha ricostruito l’iter nel suo novello libro dal titolo “Le armi del cavaliere giostrante”. Nessuno prima di lui si era posto il problema della reale provenienza di esse. Da tutti si dava per scontato che facessero parte della Collezione Farnese. E’ stata, pertanto, quella del dottor Umberto Bile una scoperta che ha destato scalpore nel mondo degli esperti, come ha dichiarato la stessa soprintendente del Polo Museale della città di Napoli, Lorenza Mochi Onori: “Umberto Bile, vicedirettore del Museo di Capodimonte, ha fatto una straordinaria scoperta che ha sconcertato gli esperti del settore: documenti inoppugnabili indicano che le armi, gli oggetti esaminati, non provengono dalla collezione Farnese ma da una antica raccolta siciliana… la ricca armeria conservata nel castello di Canicattì”.
Assai ammirato era rimasto dinanzi a quest’Armeria, che occupava tre intere stanze del pianterreno del Castello canicattinese, lo storico benedettino Vito M. Amico. Egli nel “Lexicon Topographicum Siculum”, pubblicato nel 1757, definisce l’Armeria di Canicattì “celebris per insulam universam”, famosa in tutta l’isola, ed elenca le militari armature di ogni genere in lunga ordinanza, specie quelle cavalleresche, “auro, et argento vermiculatas”, intessute d’oro e d’argento, “communis nedum, sed et procerae etiam ac giganteae staturae”, e non soltanto di comune, ma di straordinaria misura, gli strumenti bellici a mano, di vario e straniero artificio, a due o a tre canne, adatte a lanciare più proiettili in un solo colpo; gli schioppi pneumatici, le daghe, le spade, i puntoni, le lance, le spadette alla spagnola, le clave con else elegantissime, e le innumerevoli altre armi di analoga natura. E mette in risalto un’eccezionale spada che, secondo la tradizione, era appartenuta al Conte Ruggero, “ensemque praecipuum, quem vulgus Rogerii Comitis olim fuisse tradit”.
Una minuziosa enumerazione degli oggetti della celebre Armeria di Canicattì si trova in un manoscritto del secolo XIX della Biblioteca Comunale di Palermo ai segni 4Qq. D. 33, pp. 122-133. Nel 1887 ne fece una diligente trascrizione lo studioso di folklore e di tradizioni popolari Salvatore Salomone Marino, il quale la diede alle stampe con il titolo “Una pretesa armatura del Gran Conte Ruggero e l’Armeria dei Principi di Cattolica in Canicattì”, inserendola in “Spigolature storiche siciliane dal sec. XIV al sec. XIX”, Palermo 1887, pp. 45-46. Il dottor Umberto Bile la riporta integralmente nelle pagine 57-60 del suo interessante saggio, edito a Napoli nel mese di aprile 2011.
Le armi del Castello di Canicattì venivano portate in processione la Domenica in Albis per la festa dell’Immacolata, protettrice della città, dallo Squadrone della Maestranza, una corporazione di mastri che sfilava solennemente in giacca lunga, calzoni a ginocchio e calzettoni bianchi: e ciò per ricordare l’aiuto miracoloso che il conte Ruggero aveva ricevuto dalla Vergine nella battaglia di Monte Saraceno, quando, appressandosi la fine del giorno, si era rivolto alla Madonna, pregandola di fermare il sole per consentirgli la piena vittoria. E si dice che l’Immacolata gli sia apparsa sul campo di battaglia e ne abbia esaudito la preghiera. Ottavio Gaetani nella sua “Isagoge ad historiam sacram siculam” ne racconta il miracolo diversamente, in questi termini: “Nell’assalto sferrato dal Conte Ruggero alla città degli arabi, posta su un alto monte, il cui nome era Saraceno, essendo i suoi soldati afflitti dalla sete, rivolse egli preghiere alla Vergine: essendo Maria apparsa di nuovo a lui che pregava, gli avrebbe mostrato una fonte di acqua viva; e inoltre gli avrebbe preannunciato la vittoria sul nemico”.
Ottenuta la vittoria, il conte Ruggero, secondo la tradizione, avrebbe inviato al Castello di Canicattì, su un carro trainato dai buoi, le armi strappate ai nemici, perché fossero consacrate all’Immacolata. E una delle corazze esposte al Museo di Capodimonte porta impressa l’effigie dell’Immacolata. Di tali strumenti bellici la “Storia Generale di Sicilia” del De Burigny pone in rilievo, nelle pagine aggiunte da Mariano Scasso Borrello, l’eccezionalità, precisando che “un gran numero fu lavorato a capriccio, perché si veggono giganteschi e troppo carichi d’oro e di abbellimenti”. C’era, quindi, nel Castello “una compita raccolta di tutto ciò, che serviva d’uso agli antichi Guerrieri… né vi mancano gli arnesi de’ giuochi di armeggierie, delizia de’ vetusti Cavalieri, come erano le giostre, i caroselli ecc.”.
Lo smembramento dell’Armeria del Castello di Canicattì ebbe inizio con il dono che Giuseppe Bonanno Branciforti fece a Ferdinando IV. In seguito, nel 1827, dopo la cessione della signoria al barone Gabriele Chiaramonte Bordonaro, cui seguì la morte violenta del principe della Cattolica, gli eredi, secondo quel che nel 1850 racconta il sindaco Raimondo Gangitano, avrebbero fatto dono di altri pezzi dell’Armeria al re Francesco I di Borbone, il quale, “per mezzo di un Capitano di sue regali truppe all’uopo spedito”, li fece trasportare a Napoli. Al riguardo il dottor Umberto Bile scrive: “Nel 1827 giunse a Canicattì da Napoli, inviato da Francesco I, “un capitano delle sue regali truppe”, per ritirare altri pezzi dell’armeria. Cosa fu ritirato in quell’occasione per essere trasportato a Napoli, cosa fu esposto nell’armeria privata di Palazzo Reale di Napoli, cosa rimane oggi dell’antica armeria di Canicattì nella raccolta di Capodimonte, oltre al celebre ‘gioco d’armi’ finora ritenuto di provenienza farnesiana, e alla presunta spada di Ruggiero, sarà oggetto, ci si augura, di ulteriori ricerche”.
Per ora sono in bella mostra soltanto gli esemplari donati nel febbraio 1800 dal principe della Cattolica a Ferdinando IV, “considerati, anche da ‘specialisti’ della materia attenti e di prestigio internazionale, non solo, correttamente, tra gli esempi più pregevoli della celebre manifattura lombarda del Cinquecento”. Ad affermarlo è l’ex soprintendente del Polo Museale di Napoli Nicola Spinosa, il quale riconosce al dottor Umberto Bile il grande merito di avere identificato quelle armi “come provenienti da un’antica e prestigiosa armeria siciliana, di proprietà del sicilianissimo principe della Cattolica, Giuseppe Bonanno e Branciforte, collocata nel suo castello avito a Canicattì, in provincia di Agrigento, e per di più dalla fantasia popolare (quanto straordinariamente fertile e meritoria!) messa addirittura in relazione con le splendide vicende di storia e d’arte dei primi sovrani normanni in Sicilia”.
Ma delle armi del Castello di Canicattì, donate nel 1827 a Francesco I di Borbone, non c’è traccia né al Museo di Capodimonte né all’Armeria Reale di Torino, dove si dice siano state trasferite dopo la proclamazione del Regno d’Italia. Ma è difficile pensare che Napoli si possa essere privata di propri importanti beni culturali per cederli a Torino. Per quanto riguarda il grosso di quell’Armeria, la verità è che forse gli eredi, legittimi proprietari, abbiano prelevato quelle armi rinascimentali, “ivi raccolte – come si legge nel “Lexicon” – dagli antichi baroni avidi di gloria”, e le abbiano messe in vendita nell’intento di ricavarne un lauto guadagno. Sicché il ricco patrimonio di quella Collezione, “celebris per insulam universam”, andò disperso.
Il Museo di Capodimonte rende ora onore a Canicattì e alla sua prestigiosa e antica Armeria del Castello con i pochi ma prestigiosi pezzi riscoperti e riposizionati dal dottor Umberto Bile e messi in mostra con il titolo “Le armi del cavaliere giostrante”.
Fonte Solfano.it