L’inchiesta prese il via nel 2010 grazie ai poliziotti del Commissariato di Porto Empedocle, agli ordini del vice questore aggiunto Cesare Castelli, e agli agenti della Squadra Mobile di Agrigento, guidata allora da Alfonso Iadevaia. Indagando su un vasto giro di spaccio di sostanze stupefacenti tra Agrigento e Porto Empedocle, gli investigatori accertarono che dietro al mercato della droga ci poteva essere qualcosa di più grosso. Alcuni sospettati, infatti, parlavano di estorsioni, intimidazioni e minacce. Come è stato poi accertato dall’inchiesta “Nuova Cupola” che ieri mattina ha consentito il fermo di 54 persone, tra boss, capi famiglia e picciotti delle cosche agrigentine. E nelle 1000 e passa pagine dell’ordinanza esce fuori il lato criminale e altamente pericoloso del nuovo clan. Tutti dovevano pagare, e chi si rifiutava subiva danni alla propria attività lavorativa, che servivano a spegnere le ultime resistenze. I più attivi erano Francesco Ribisi e Giovanni Tarallo. I due si sarebbero serviti di alcuni uomini di loro fiducia: Gaetano Licata, Pietro Capraro, Vincenzo Capraro, Luca Cosentino e Natale Bianchi. Obiettivo principale sarebbe stato quello di imporre il pizzo, ma anche il personale, per ottenere il controllo totale del mercato degli autotrasporti tra Porto Empedocle e Lampedusa. In particolare avrebbero imposto l’assunzione presso una ditta di trasporti degli stessi Gaetano Licata, Pietro e Vincenzo Capraro, non risparmiando richieste di soldi, e minacciando in caso di rifiuto di ricorrere a danneggiamenti e furti. Altre aziende di trasporti si sarebbero sottomesse ai voleri del clan. Il gruppo che fa capo a Francesco Ribisi, spesso per convincere la vittima di turno a versare il pizzo, ricorreva all’uso delle armi. Tra le ditte taglieggiate la sala giochi Aster, la gelateria Le Cuspidi, il ristorante Capriccio di mare a San Leone; la ditta Mnr trasporti di Lampedusa, la ditta trasporti Forza di Villaseta e Asec di Giuseppe e Roberto De Francisci, la Trans.Co. srl, la Ge. An costruzioni di Ventimiglia di Sicilia, la ditta di Liborio Tuttolomondo di Agrigento, il ristorante-bar Il Molo di San Leone; le ditte Sicily food e Mancuso Gelati, la ditta di abbigliamento di Yen Hi, l’esercisio commerciale Regina di Agrigento, i supermercati, sei punti vendita, di Giovanni Farruggia a Raffadali, la Estro spa, il supermercato Gr Market – Conad, la cooperativa Edile Vna e la ditta di Giuseppe Militello, la Brucceri edilizia srl, la Azzurra costruzioni, la Novagest Conad supermercati, la Mosedil e la Perna ecologica srl, la ditta Nobile Giuseppe e figli, Autotrasporti colonna, la concessionaria Fiat Si. Bo., supermercato Pick up, Alta moda di Gioacchino Cimino.

Scontro aperto alla procura di Palermo sul blitz che ieri ha portato in cella 54 presunti affiliati delle cosche agrigentine. Un’operazione intempestiva che avrebbe interferito con un’inchiesta che doveva portare alla cattura del superlatitante Matteo Messina Denaro condotta dai carabinieri del Ros, secondo Teresa Principato, il procuratore aggiunto che coordina le indagini sulla mafia trapanese. Il magistrato ha messo nero su bianco le sue lamentele e girato un’email infuocata a tutti i colleghi. Oggi è arrivata la risposta piccata del procuratore Francesco Messineo che, vistando i fermi, ha di fatto autorizzato il blitz “accontentando” i pm della dda che coordinano le inchieste sulle cosche agrigentine che hanno ritenuto di eseguire i provvedimenti nonostante i colleghi avessero paventato il rischio che così si sarebbe “stoppata” l’inchiesta sul padrino latitante. L’operazione – scrive di fatto Messineo – è pronta dai primi di maggio. Abbiamo già dilazionato i termini per consentire che andassero avanti le indagini su Messina Denaro. “Ora – aggiunge il capo della Procura – ho ritenuto preminente rispetto al possibile approfondimento della linea investigativa già da tempo in atto l’esecuzione di un provvedimento doveroso avuto riguardo alla gravità dei fatti accertati”. Ma a insorgere, oltre all’aggiunto Principato e ai suoi sostituti, convinti che l’inchiesta dei carabinieri, soprattutto negli ultimi periodi, aveva offerto spunti investigativi ottimi, sono gli stessi militari del Ros che oggi hanno incontrato i magistrati per discutere del caso. Al comando generale la cosa non sarebbe piaciuta affatto e i militari dell’Arma sarebbero arrivati a ipotizzare di interrompere l’attività di ricerca del padrino trapanese su cui tante energie di uomini e mezzi il Raggruppamento Operativo Speciale ha impiegato. La pista che i carabinieri del Ros stavano seguendo e che il blitz di ieri avrebbe “bruciato” passava per il boss Leo Sutera, 62 anni, di Sambuca di Sicilia, da sempre vicino alla mafia corleonese e in rapporti strettissimi con Messina Denaro. Scarcerato nel 2007 dopo essere stato arrestato in flagranza durante un summit di mafia in corso a Santa Margherita Belice e avere scontato una condanna a 6 anni per associazione mafiosa, il capomafia, soprannominato “il professore”, compare nei pizzini trovati nel covo di Bernardo Provenzano il giorno del suo arresto. “Il professore” fu incaricato dal padrino di Corleone di dirimere una lite scoppiata tra Messina Denaro e i capimafia agrigentini Giuseppe Falsone e Giuseppe Capizzi che avevano provato a chiedere il pizzo a re dei supermercati Despar Giuseppe Grigoli, che aveva aperto dei punti in provincia di Agrigento, prestanome e amico del boss trapanese. Messina Denaro era insorto e Provenzano aveva affidato a Sutera il compito di mediare. Racconta il pentito Maurizio Di Gati che Sutera avrebbe detto: “Chiedere il pizzo a Grigoli significa chiederlo a Messina Denaro. E poi che facciamo: la mattina ci guardiamo allo specchio e ci sputiamo in faccia?”. Il procuratore aggiunto che indaga sulle cosche agrigentine ieri, dopo il blitz, aveva specificato che la loro indagine non sarebbe nata dalle ricerche del boss trapanese. Ma per i colleghi non basta e visti gli sviluppi recenti dell’inchiesta del Ros si sarebbe sprecata davvero una buona occasione per catturare l’ultimo capomafia di rilievo ancora libero.

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