Il dominio della cultura liberista, da oltre un quarto di secolo a questa parte, ha fatto si che la struttura dello Stato venisse scardinata fino al punto di non essere più capace di incidere sulla vita economica e sociale del Paese. Lo Stato, cioè, non più attore economico potenzialmente attivo e redistributivo, ma solo istituzione che regolamenta. Il conseguente processo di smembramento e cessioni di attività produttive pubbliche, è risultato poi quello che ha più pesato negativamente sull’economia nazionale. Ancora più grave il fatto che si sono privatizzati i profitti, mentre i costi sociali ed ambientali sono stati scaricati sulle spalle della collettività. Cosa di cui nessuna forza politica, di centrodestra e di centrosinistra, può dirsi immune da responsabilità. Così pure sulle mancate politiche che guardassero al futuro e delle quali non riesce a trovare la quadra nemmeno l’attuale governo tecnico, forse perché tendenzialmente dall’idea per cui al di fuori del mercato non c’è salvezza e dunque più preoccupato dello “spread finanziario” – piuttosto che dello “spread sociale”. O forse perché “deve andare così”. Con il risultato che il Paese sta vivendo un ciclo di impoverimento duraturo, grave e drammatico sul piano sociale ed economico e chi ne paga i costi maggiori sono le famiglie, mentre la speculazione distribuisce dividendi e fa ricchissimi affari a danno dello Stato e quindi dei cittadini tutti.
Nei momenti di grave crisi, la Storia insegna, il volano per fare ripartire la crescita è lo Stato. L’intervento dello Stato nell’imprenditoria in settori di elevata potenzialità di sviluppo, sulla base di principi vincenti (come avvenne con l’Eni di Mattei). Cioè con una politica di largo respiro che abbia una chiara visione degli obiettivi e del cammino da fare per raggiungerli. E’ vero che la Storia non si ripete mai allo stesso modo, ma è anche vero che ha il pregio di insegnarci tante cose, mostrando anche gli errori del passato e dandoci quindi la possibilità di non ripeterli. Come il parlare solo e sempre di austerità, per esempio, e poco di politica economica del lavoro, senza la quale non si esce dal girone infernale in cui ci hanno trascinato e senza mai ascoltare il Paese reale. Senza mai guardare alla realtà di un Paese che è come una pentola a pressione alla quale è stata tolta la valvola di sfiato e quindi, prima o poi, potrebbe anche scoppiare.
Salvatore Ferrara