Vi confesso che l’idea di iniziare un nuovo ciclo della rubrica “Sul Comodino” e dedicarlo ai grandi classici della letteratura è un idea che ronza nella mia testa da qualche mese, ma come tutte le idee che ti fanno innamorare a tratti mi sento sedotto e a tratti illuso.
Il timore è ovviamente quello di confrontarsi con i “mostri sacri” della letteratura di ogni tempo e che quindi le mie semplici e banali riflessioni di modesto lettore domenicale possano apparire alla maggior parte di voi, scontate e noiose, da cui un certo timore reverenziale mi ha fatto desistere dall’ardua impresa.
Ma voi sapete bene come sono testardi gli innamorati, non si arrendono mai, e più la bella amata diventa un sogno da conquistare più il fuoco della passione cresce dentro di loro.
Per cui ad un certo punto mi sono detto “proviamoci” e vediamo che succede, se fa proprio schifo anche se in redazione mi vogliono bene e non intendono buttarmi giù troveranno un modo carino per dirmi che non si può proprio pubblicare, al contrario se in questo momento state leggendo vuol dire che ancora, nonostante tutto, riesco a mettere insieme qualche frase di senso compiuto.
Consentitemi a questo punto una piccola nota personale.
Non sarà certamente sfuggito alla maggior parte di voi che questo pezzo non reca la solita firma che ormai conoscete bene, bensì in calce al documento leggete la firma di un certo Julian Carax.
Chiedo in anticipo perdono a quanti di voi hanno già intuito che si tratta dello scrittore protagonista dello splendido romanzo di Carlos Ruiz Zafon “L’Ombra del Vento” e chiedo lo stesso perdono a quanti di voi non lo hanno intuito certo del fatto che questo mio piccolo vezzo letterario apparirà ai vostri occhi piuttosto presuntuoso ma io sono un nostalgico e l’idea di usare il nome del protagonista del mio romanzo preferito come uno pseudonimo è stata più forte di me.
Pazienza.
Sono sicuro che il vostro affetto e ancor di più la comprensione nei confronti di un modesto imbrattacarte che si da arie da romanziere, alla fine, saranno più forti del vostro disappunto e finirete col perdonarmi il vanesio peccato letterario.
Ritornando ai nostri classici oggi vorrei raccontarvi brevemente uno dei più bei romanzi che ho letto fin ora, nella speranza si intende di leggerne e raccontarvene parecchi altri, che si intitola “Di là dal fiume e tra gli alberi” scritto dal romanziere americano Ernest Hemingway nel 1950.
E’ la storia del cinquantenne colonnello Richard Cantwell che si innamora di una giovane aristocratica veneziana appena diciannovenne di nome Renata, alla quale racconta quasi come in una seduta psicoanalitica le vicende della guerra.
Nella storia d’amore tra il colonnello Cantwell e la giovane Renata si notano palesi riferimenti autobiografici, nel periodo in cui scrisse questo romanzo infatti Hemingway era innamorato della diciannovenne Adriana Ivancich, e anche Hemingway, come il colonnello del suo romanzo, era un reduce della prima guerra mondiale.
Come in tutti i romanzi di Hemingway si sente forte il tema della vita, della morte, e dell’amore.
Il colonnello Cantwell è affetto da problemi cardiaci e gli resta poco tempo da vivere, nonostante tutto non si sottrae alla forza magnetica dell’amore e della passione e vive intensamente le ultime ore della sua vita accanto alla ragazza che ama.
“Di la dal fiume e tra gli alberi” è stato definito un romanzo crepuscolare e onestamente vi confesso che questa definizione mi ha colpito più di tutte.
Trovo particolarmente affascinante l’idea del crepuscolo inteso come fase finale della vita, ma non una fase finale rassegnata e amareggiata, bensì una fine orgogliosa, scevra da qualsiasi rimpianto e rimorso.
La fine di un uomo che ha amato, anche attraverso i personaggi che ha fatto vivere nei suoi romanzi, più di chiunque altro una grande avventura che si chiama vita.
Grazie Ernest.
Julian Carax