Un ultimo abbraccio nel cuore di quella città da dove, inchiodato in un letto, un piccolo grande uomo, follemente innamorato della vita, ha saputo donare speranza a chi rivendica il diritto ad un’esistenza dignitosa nonostante la malattia.
Dolore ma anche tanta fiducia, per una battaglia che continua, oggi pomeriggio alla Cattedrale di Catania dove si sono svolti i funerali di Salvatore Crisafulli, il disabile catanese deceduto giovedì scorso all’età di 47 anni.
La storia di Salvatore aveva fatto il giro del mondo, toccato le coscienze, scosso la comunità scientifica imponendo una seria riflessione sui ‘parametri’ medici che segnano il confine tra vita e morte. Coinvolto in un gravissimo incidente stradale nel 2003, la diagnosi dei medici era stata terribile: “coma di 4° grado severo ed acuto, paziente non contattabile”. Nessuna speranza per lui, ritenuto dai numerosi specialisti che avevano seguito il suo caso, un vegetale, destinato a morire. Nel marzo 2005 però, l’uomo si era risvegliato dal coma, svelando che già sette mesi dopo l’incidente era tornato ad essere cosciente, in grado di capire quanto accadeva intorno a lui, di sentire i discorsi dei familiari ma incapace di comunicare in alcun modo.
Gli anni successivi, sino al tragico epilogo, Salvatore li aveva trascorsi lottando in difesa della vita, schierandosi pesantemente contro le istituzioni che spesso dimenticano i diritti di chi non ha più voce.
Nel 2009, insieme al fratello Pietro, aveva fondato la onlus Sicilia Risvegli, impegnata a sostenere pazienti affetti da gravi malattie neurodegenerative, stati comatosi e post-comatosi.
Insieme avevano intrapreso una tenace battaglia per le staminali mesenchimali, la cui infusione in Italia, pur essendo disciplinata dal decreto ministeriale Turco-Fazio del 2006 relativa alle “cure compassionevoli” è stata bloccata nel maggio 2012 a seguito di un’indagine dalla Procura di Torino “per dubbi di metodo e nessuna certezza scientifica”.
Salvatore era diventato il punto di riferimento per migliaia di disabili gravi la cui unica speranza terapeutica è costituita dalle staminali e che devono ad oggi, rivolgersi ad un giudice per sottoporsi alla terapia.
Dure le parole usate da padre Giuseppe Maieli, durante l’omelia funebre, nei confronti “di quella società civile caratterizzata da una falsa pietà, che ostenta compassione ma poi considera i disabili un peso di cui liberarsi”.
Salvatore Crisafulli aveva un cuore grande e forte, lo stesso con il quale aveva lottato prima contro la morte e poi contro i pregiudizi, circondato dall’affetto di una famiglia che ha trovato nella tragedia personale le energie per rivendicare la dignità dei disabili gravi.
Davanti alla sua bara, il fratello Pietro, presidente di Sicilia Risvegli, ha voluto rivolgersi alle famiglie che vivono il dramma della solitudine nell’assistenza ad un familiare disabile. “Ogni momento dell’esistenza di Salvatore è stato un inno alla vita – ha detto Pietro Crisafulli – continuerò adesso io in suo nome a lottare perché la cura con staminali venga in Italia garantita. Non è giusto essere costretti a bussare alle porte di un Tribunale per elemosinare il riconoscimento del diritto sacrosanto alla vita. Mentre le istutuzioni si trastullano per valutare se le staminali siano efficaci o meno, la gente continua a morire”.
Salvatore non ce l’ha fatta, proprio quando la meta sembrava vicina. Anche lui aveva presentato, il 12 febbraio scorso, insieme ad altri disabili catanesi, ricorso urgente al tribunale della città etnea per sottoporsi all’infusione di quelle staminali che avrebbero potuto migliorare le sue condizioni di salute.
Commosso il ricordo di Irene Sampognaro, la moglie di Giuseppe Marletta, architetto catanese in coma da due anni per un errore medico, in attesa di trapianto di staminali. “In questo paese – ha dichiarato Irene – non esiste possibilità di cura se non attraverso i tribunali. Anche la vita di mio marito, come quella di altri disabili, è appesa a un filo. La scienza medica ha riscontrato i miglioramenti che le staminali possono determinare, non si può costringere migliaia di persone a vivere un’esistenza a metà. Non ci fermeremo, continueremo a chiedere che questa possibilità venga data a chi sarebbe altrimenti condannato a morire”.
Salvatore per la stampa internazionale era “l’anti-Welby”. Si era più volte pronunciato contro l’eutanasia, ripetendo a quanti incontrava, che il vero obiettivo dev’essere la vita e non la morte. Eppure, viveva imprigionato nel proprio corpo. Aveva imparato ad affidare i suoi pensieri ad un sofisticato software attraverso il quale comunicava con il mondo, insieme ai sorrisi che non ha mai smesso di regalare a chiunque si accostasse al suo letto. “La vita è un dono prezioso, anche se si soffre”, aveva scritto.
Chi lo ha conosciuto, non può oggi trattenere le lacrime per aver perso un amico e fratello, un uomo che ha trasformato la propria personale tragedia in un monito alla vita, di cui è stato, sino all’ultimo, strenuo paladino.
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