Cinquemila euro, una tantum. È questa la cifra che la Regione Siciliana ha messo a disposizione delle famiglie in condizioni di povertà estrema. Una misura annunciata mesi fa e accolta con un mix di sollievo e scetticismo. Mentre le domande scorrono sulla piattaforma IRFIS, una domanda resta sullo sfondo: può davvero un contributo isolato bastare per affrontare la complessità della povertà cronica?

Perché la povertà, soprattutto al Sud, non è solo una questione di soldi. È un intreccio di marginalità, disuguaglianze, mancanza di servizi, isolamento. È un circolo vizioso che si autoalimenta. E non sempre una misura emergenziale riesce a spezzarlo.

La realtà dietro i numeri

Chi ha un ISEE inferiore a 5.000 euro l’anno non vive, sopravvive. Nella migliore delle ipotesi si tratta di persone che si arrangiano con lavoretti saltuari, piccoli aiuti familiari, buoni spesa comunali.

Il contributo da 5.000 euro può sicuramente rappresentare un sollievo. Può servire a pagare affitti arretrati, bollette, rate di debiti accumulati. Ma in moltissimi casi si traduce in un tampone momentaneo, utile ma incapace di cambiare davvero la traiettoria di vita di chi lo riceve.

Il punteggio della miseria

La Regione ha scelto di assegnare i fondi del Reddito di Povertà in base a un sistema a punteggio. Un criterio comprensibile, pensato per selezionare i beneficiari in base a criteri oggettivi: reddito, composizione familiare, affitto, presenza di minori, condizioni di disagio sociale.

Il problema è che la povertà non sempre si lascia incasellare in una griglia. Ci sono famiglie in grave difficoltà che non rientrano nei parametri. E poi ci sono casi borderline, come i padri separati che non risultano nel nucleo familiare dei figli, oppure i giovani in difficoltà abitativa che non hanno una residenza ufficiale. Le esclusioni, in questi casi, non sono errori: sono il prodotto di una logica algoritmica che ignora le zone d’ombra.

Il nuovo volto dell’esclusione: la povertà digitale

Un altro elemento che merita attenzione è l’accessibilità digitale. La domanda per il contributo può essere presentata solo online, con SPID o CNS, attraverso una piattaforma dedicata. Ma è lecito domandarsi: quante persone in condizione di povertà estrema hanno dimestichezza con questi strumenti?

Molti si affidano a CAF, patronati o persone fidate, ma non tutti hanno questa rete di supporto. E così, il rischio è che l’accesso al contributo venga ostacolato non dalla mancanza di requisiti, ma dalla mancanza di strumenti digitali. In un mondo sempre più connesso, la povertà informatica si aggiunge a quella economica come nuova barriera invisibile.

Una tantum non è una soluzione

Il vero limite della misura, però, resta nella sua natura: una tantum. Non è una rendita, né un percorso. È un colpo solo. Un aiuto immediato, ma senza continuità. E qui sta il nodo centrale: la povertà cronica ha bisogno di risposte croniche. Servono misure strutturali, non spot.

Inserimenti lavorativi, politiche abitative, servizi sociali di prossimità, supporto psicologico e sanitario: questi sono gli strumenti che realmente possono rompere il ciclo della marginalità. Senza di essi, i 5.000 euro rischiano di trasformarsi in un gesto simbolico. Apprezzabile, certo. Ma scollegato da una strategia di lungo periodo.

Un’occasione per ripensare il welfare

Eppure, da ogni crisi può nascere un’opportunità. La misura siciliana può essere letta anche come un segnale politico: la povertà esiste, è diffusa, e va affrontata. Se questo contributo una tantum diventerà il primo passo di un percorso più ampio, allora avrà un senso. Se resterà un episodio isolato, invece, rischierà di generare più frustrazione che sollievo.

Perché nessuno si illude di cambiare la propria vita con 5.000 euro. Ma tutti sperano che quello sia solo l’inizio di qualcosa. Non l’eccezione che conferma la regola dell’abbandono.